Transfiguração do Senhor - 2010
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Bose, 6 Agosto 2010
Homilia de ENZO BIANCHI
Não devemos esquecer a luz que experimentámos com o Baptismo, no dia em que, diante da Igreja, chamámos Deus como testemunha e demos uma palavra de fidelidade
Bose, 6 agosto 2010
Professione monastica definitiva di Nimal, Francesca, Elisa
ascolta l'omelia:
Carissimi fratelli e sorelle, monaci e monache amici, e voi tutti amici e ospiti,
eccoci insieme, in una grande pace e in una salda gioia che il Signore concede alla nostra comunità; eccoci immersi, partecipi del mistero che celebriamo: la Trasfigurazione di Gesù. Come ci invita a fare la preghiera della chiesa, noi invochiamo la luce, quel lume celeste che ci permette di contemplare con sguardo puro e di accogliere e gustare con ardente amore questo mistero (cf. Epifania del Signore, Orazione dopo la comunione) che è la rivelazione dell’umanità e della divinità di Gesù Cristo, del suo essere l’Adam, l’uomo per eccellenza, e del suo essere anche il Figlio, il Signore.
Ogni anno nella seconda domenica di Quaresima, e poi oggi, al cuore dell’estate, noi celebriamo questo evento della trasfigurazione. Lo facciamo, significativamente, durante il cammino verso la Pasqua e poi il 6 agosto, quaranta giorni prima della festa della Santa Croce. La liturgia lega sempre la passione di Gesù alla sua gloria, e proprio questo legame sarà questa sera il fulcro della nostra omelia. Abbiamo meditato in altre occasioni su altri aspetti del mistero, ma quest’anno vogliamo sostare in modo particolare su questo rapporto tra gloria e abbassamento, tra beatitudine e sofferenza, il rapporto – potremmo dire – tra le due montagne: il Tabor e il monte degli Ulivi-Golgota. Faremo questo guidati dalla comprensione della trasfigurazione propria dell’evangelista Luca. Questo legame tra gloria e passione è sempre stato colto ed evidenziato dai padri della chiesa e soprattutto dalla liturgia delle chiese ortodosse. Nicodemo Aghiorita e numerosi padri prima di di lui affermano che la trasfigurazione è avvenuta quaranta giorni prima della passione, e nei testi liturgici della festa è sempre presente questa «sindrome», questa connessione tra Tabor e Golgota, perché la trasfigurazione è possibile solo attraverso il cammino della croce. Nella vita di Gesù è stato così, lo è anche nella nostra vita. E proprio quando verifichiamo che questo accade, noi possiamo essere sicuri che stiamo camminando sulle orme di Gesù, non su cammini che sono i nostri. Davvero Tabor e Golgota non devono essere mai disgiunti, ma devono essere compresi l’uno accanto all’altro, come un solo e unico mistero.
Poniamoci dunque in ascolto del vangelo. È proprio l’evangelista Luca, lui solo, che al cuore dell’evento ci rivela che «Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, conversavano con Gesù e parlavano del suo esodo che doveva compiersi in Gerusalemme», parlavano dell’esodo da questo mondo al Padre che Gesù in obbedienza alle Scritture avrebbe vissuto nella piena fedeltà a colui che lo aveva mandato nel mondo. Questo è il collegamento tra Tabor e Golgota, è la vera rivelazione, l’alzare il velo sul destino di Gesù, su ciò che lo attende alla fine di quel viaggio intrapreso verso la città santa di Gerusalemme. Luca racconta che Gesù, subito dopo aver ricevuto la confessione di Pietro che lo ha proclamato con fede Messia di Dio, ha fatto il primo annuncio della necessità della sua passione, della sua condanna, della sua morte e resurrezione (cf. Lc 9,18-22). E proprio dopo questa rivelazione, dopo questi discorsi, «circa otto giorni dopo», ecco l’evento della trasfigurazione, evento che ha una funzione concreta e precisa: attestare che Gesù è veramente il Messia, come lo aveva proclamato Pietro, ma attestare anche che la sua messianicità, la sua gloria contiene come necessitas la sua passione e morte.
Gesù aveva annunciato la venuta del regno di Dio, aveva annunciato anche che alcuni tra suoi discepoli avrebbero visto il regno di Dio prima di morire (cf. Lc 9,27). E così avviene. Gesù prende con sé tre dei suoi discepoli, Pietro, Giovanni e Giacomo, e sale sul monte per pregare: pregare con loro, non pregare da solo, pregare con loro davanti al sopravvenire degli eventi ormai annunciati, pregare con loro per trovare luce sul cammino che lo attende. Ed ecco, durante la preghiera, la manifestazione della gloria di Dio nella sua carne, nella sua persona: accade una trasformazione del suo volto che diventa splendente, una trasformazione delle sue vesti che diventano sfolgoranti. Gesù è altro? No, è l’uomo Gesù di Nazaret, ma è visto, contemplato nella sua gloria, nel suo legame mai spezzato con il Padre, con Dio. A questo proposito mi permetto di ricordare che secondo i padri della chiesa greca la trasformazione, la metamorfosi è soprattutto un evento che ha riguardato gli occhi, e non solo gli occhi, ma anche il cuore dei tre discepoli. Ciò che è stato trasfigurato è lo sguardo dei tre, i quali hanno visto per grazia ciò che non sapevano vedere nella quotidianità della vita con Gesù. A loro è stata data la facoltà di vedere il Cristo nella sua realtà più profonda: quella di Figlio di Dio, realtà che restava nascosta in tutta la vicenda terrena di Gesù.
Questa esperienza di gloria appare come una rivelazione non solo per i discepoli, ma anche per Gesù. Così il racconto di questo evento ci vuol dire che per affrontare la prova, la tribolazione, non è vero che occorra essere esperti in sofferenza. Occorre semplicemente avere visto la luce: certo, averla vista nella fede, non con gli occhi carnali. Gesù dunque all’inizio del viaggio verso Gerusalemme riceve dal Padre quella luce necessaria per percorrere il cammino, anche nella tenebra della sofferenza e della morte. Pure i discepoli sono muniti di una luce che deve sostenerli e far loro comprendere la necessità della passione in ogni strada di vero, autentico, sincero amore, che deve sostenerli nella fede pur nello scandalo della passione.
Per questo, in quella luce che Dio dona a Gesù e ai discepoli appaiono Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti, le Sante Scritture contenenti la Parola di Dio, quale conferma per il cammino di Gesù e luce per i discepoli. Mosè ed Elia dicono la necessità dell’esodo di Gesù. In mondo ingiusto – perché il mondo è ingiusto –, se il giusto vuole rimanere nella logica della giustizia e dell’amore, e questo significa restare fedele a Dio, non può altro che accettare di essere rigettato (cf. Sap 1,16-2,20) e, secondo l’espressione del vangelo, «soffrire pollà, molte cose» (Lc 9,22). Non c’è amore senza sacrificio, non c’è amore senza l’accettazione del soffrire. Questa verità è difficile da comprendere; noi non solo esitiamo ad accettarla ma per istinto, con tutte le fibre del nostro essere diciamo: «Non sia mai!». Non è un caso che l’annuncio pasquale, secondo Luca, abbia un solo insegnamento per i discepoli sempre increduli, ribadito per ben tre volte. I due uomini accanto al sepolcro dicono alle donne: «Ricordatevi di come vi parlò quando era ancora in Galilea, dicendo che era necessario che il Figlio dell’uomo patisse» (cf. Lc 24,6-7); Gesù risorto dice ai discepoli in cammino verso Emmaus: «Non era forse necessario che il Cristo soffrisse per entrare nella sua gloria?» (cf. Lc 24,26); e infine Gesù dice agli undici riuniti insieme: «Queste le parole che vi dicevo: sta scritto che il Cristo dovrà patire» (cf. Lc 24,44.46). La sofferenza è un passaggio necessario per ogni via di amore fedele, non può essere soppressa nel cammino di umanizzazione e neanche nel cammino di sequela di Gesù.
Ma se il discepolo ha visto, se ha visto la luce di Cristo, allora è equipaggiato alla resistenza, alla lotta spirituale. E poi – come diceva abba Antonio – «che cosa abbiamo noi monaci? Abbiamo le Sante Scritture che ci accompagnano sempre, fino all’ultimo respiro» (cf. Atanasio, Vita di Antonio 26,4; Detti dei padri, Serie alfabetica, Antonio 4). Non è forse avvenuto così per i tre discepoli? Nell’annuncio della passione Mosè ed Elia, le Sante Scritture, testimoniano per Gesù; ma secondo Luca anche nel mattino di Pasqua due uomini, sempre Mosè ed Elia, saranno gli interpreti della tomba vuota per le donne là accorse (cf. Lc 24,4-7); e ancora al momento dell’ascensione saranno due uomini, Mosè ed Elia, che diranno agli apostoli: «Questo Gesù … verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).
Voglio ricordare a tutti noi, ma soprattutto a Nimal, Francesca ed Elisa, che fanno la loro professione definitiva, che si impegnano a viverla fino alla morte: per il vostro futuro deve bastarvi questa luce, luce della chiamata di cui avete fatto esperienza, luce della trasfigurazione, luce dono di Dio, grazie al quale questa notte potete dire un «Amen» definitivo. E con questa luce devono bastarvi le Scritture Sante, viatico che la comunità vi assicurerà ogni giorno, Parola di Dio che vi accompagnerà sempre, nei buoni e nei cattivi giorni. Non dovete dunque dimenticare che Gesù e i discepoli sono saliti sul Tabor e sono saliti sul monte degli Ulivi insieme e per pregare insieme. I discepoli hanno visto la gloria di Gesù sul Tabor perché sono restati in preghiera; non hanno invece saputo contemplare Gesù sul monte degli Ulivi e seguirlo al Golgota perché quella notte non sapevano pregare. Luca scrive che in entrambe le situazioni i discepoli erano oppressi dal sonno (cf. Lc 9,32; 22,45), ma sul Tabor si tennero ben svegli per pregare e videro la luce, la gloria di Gesù; sul monte degli Ulivi, al contrario, non riuscirono a vegliare, nonostante Gesù li avesse chiamati a pregare con lui, e così decisero l’interruzione della loro sequela, la fuga, il tradimento e il rinnegamento del cammino percorso e della loro esperienza di luce. Non ricordavano l’esperienza del Tabor: non la ricordavano e non potevano ricordarla perché non riuscivano a restare in preghiera.
Ripetiamo sempre l’importanza della preghiera, ma dobbiamo esserne convinti, dobbiamo rinnovare questa fede nella preghiera. Anche qui l’esperienza che abbiamo nella nostra vita comunitaria ci ammonisce: solo quando si tralascia di pregare, quando la preghiera come opus Dei, come lavoro di Dio in noi, non ha più il primato, allora è possibile la caduta, la smentita della vocazione. Se non si prega, se non si ascolta la voce delle Scritture, la Parola di Dio, si ascolta la propria voce, si ascolta se stessi, si pensa di dover determinare se stessi senza tenere conto né del Signore né degli altri, si decidono i criteri delle proprie scelte, si pensa soltanto alla propria realizzazione. Allora ci si mette su una strada che promette di non far incontrare la sofferenza, una strada in cui, secondo le parole di Gesù, si vuole riconoscere solo se stessi, e così si finisce per perdere la vita (cf. Lc 9,23-24).
Carissimi Nimal, Francesca ed Elisa, voi siete consapevoli della parola che date a noi fratelli e sorelle davanti alla chiesa; voi siete consapevoli dell’impegno che assumete con la nostra comunità e con Dio, dell’alleanza che stringete con noi e con il Signore. Per molti anni, più di sette, avete potuto discernere il cammino monastico che qui noi tutti cerchiamo di fare, nonostante le nostre infedeltà e le nostre debolezze. E in questi anni avete anche sofferto lo scandalo di chi ha smentito la parola data e ne avete portato con noi la ferita. Anche per voi verranno ore difficili, verrà forse il buio del Golgota, l’ora in cui non sarete capaci di ascoltare la voce di Dio e quindi neanche la voce della comunità, ma sentirete in voi soltanto una voce vostra. Sarà l’ora di ricordarvi di questa notte, sarà l’ora di dire con Gesù: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34; Mt 27,46; Sal 22,2). Ma dirlo con Gesù significa condividere con lui certo il sentimento di silenzio, di abbandono e magari di assenza di Dio, ma continuare fedelmente a dire: «Mio Dio, mio Dio», dunque un Dio che resta in alleanza, dove il «mio» esprime il legame, quello sancito questa notte come conferma battesimale: «Mio Signore, mio Gesù e mio Dio».
Ora noi celebreremo l’alleanza con Dio e tra di noi e nel nostro cuore canterà l’inno della liturgia cristiana orientale: «Prima di salire sulla croce, Signore, sei salito sulla montagna e ti sei trasfigurato davanti ai discepoli perché essi, vedendo la tua luce, non fossero scandalizzati, giunta l’ora di attraversare la passione e la morte» (Liturgia bizantina, Kontakion della festa della Trasfigurazione).
Fratelli, sorelle e amici, le nostre vite sono diverse, ma la vita cristiana chiede a tutti di vivere in alleanza: nell’alleanza del matrimonio, nell’alleanza della comunità, nell’alleanza di Dio. Non dovremmo dimenticare la luce di cui abbiamo fatto esperienza nel battesimo, nella chiamata e nel giorno in cui davanti alla chiesa abbiamo chiamato Dio a testimone e abbiamo dato una parola nella fedeltà matrimoniale o nella fedeltà di una comunità religiosa. Non dimentichiamolo, perché questo nostro celebrare l’alleanza è celebrare una comunione con Dio che non viene meno, se noi restiamo fedeli e continuiamo a dire: «Mio Dio, mio Signore, mio Gesù».
Enzo Bianchi