Páscoa do Senhor - 2010
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Bose, 4 Abril 2010
Homilia de ENZO BIANCHI
É preciso ter a coragem de procurar, de andar, de vencer a inércia e a preguiça, de correr, como fizeram as mulheres naquela manhã, ou como fez Pedro. Mas, só isso, não chega
Veglia Pasquale
di ENZO BIANCHI, priore di Bose
Luca 24, 1-12
Carissimi,
siamo nel terzo giorno del mistero pasquale. Da giovedì sera ci ritroviamo insieme, più volte durante il giorno, e ora nella notte. Per fare che cosa? Perché questo nostro radunarci, questo nostro fare in un modo che resta sconosciuto ed estraneo agli uomini che non sono cristiani, ai quali siamo pur legati dal vincolo della fraternità? Perché questo pensare, questo meditare, questo dire e cantare tutti insieme, questo fare liturgia appunto? La risposta è quella che Paolo si dà nella Lettera ai Filippesi, quando confessa di aver rinunciato a molte cose, anche alle cose più sante riguardanti la fede e tutta l’economia dell’antica alleanza, di aver rinunciato alle cose sante, come la Legge, «per conoscere lui», il Cristo Gesù, «per conoscere la potenza, l’energia della sua resurrezione» (Fil 3,10); ossia per sperimentare, con un amore penetrante, lo stesso evento che ha reso Gesù di Nazaret il Figlio di Dio, colui che è stato generato quale Figlio in pienezza nella resurrezione dai morti (cf. Rm 1,4). Dunque, siamo qui per essere afferrati da Cristo, come lo è stato Paolo (cf. Fil 3,7-12).
Ma che cos’è la liturgia? Perché compiamo un’azione comune con gesti e parole? Perché questo nostro fare (che è poi – come dico spesso – soltanto un predisporre tutto, poiché in realtà è il Signore che fa, è lui che opera)? Noi, uomini e donne, ci siamo umanizzati e ci umanizziamo ancora, non solo parlando, non solo comunicando, ma soprattutto facendo delle azioni insieme, delle azioni parlate, delle azioni che hanno un preciso télos, un preciso scopo. La liturgia è proprio questo. Ecco perché abbiamo bisogno di celebrare la liturgia, perché tutto il nostro essere è non solo linguaggio ed esperienza, ma è anche un tracciare un cammino, un affermare cosa vogliamo e dove vogliamo andare, è un affermare un senso, il senso del nostro vivere e del nostro vivere in comunione. Lo sappiamo: Dio non ha bisogno delle nostre liturgie, siamo noi che ne abbiamo bisogno. E nella liturgia Dio agisce; Dio – secondo l’espressione di Gesù – lavora più che mai (cf. Gv 5,17), Dio compie anche ciò che noi non sappiamo compiere né portare pienamente a termine.
Per questo noi questa sera abbiamo innanzitutto celebrato la luce, la prima cosa che sperimentiamo venendo al mondo: noi passiamo dalla tenebra alla luce. Ma nella fede quella luce è Gesù Cristo, una luce che non ha soltanto preceduto ciascuno di noi, ma ha preceduto la creazione del mondo. «Dio disse: “Sia la luce!”, e avvenne» (Gen 1,3). Abbiamo celebrato quella luce che da prima della creazione del mondo ha vinto il caos tenebroso primordiale; quella luce che da allora non è mai stata sopraffatta nella sua lotta contro le tenebre, come dice il prologo del quarto vangelo (cf. Gv 1,5), fino al giorno in cui questa luce è diventata radiosa in tutto il suo splendore in Gesù di Nazaret, Gesù il Cristo. Luce vittoriosa anche sulla morte nella resurrezione di Gesù.
Abbiamo poi anche fatto memoriale della storia di salvezza: la creazione del mondo (cf. Gen 1,1-2,2); la fede nella resurrezione dei morti del nostro padre Abramo (cf. Gen 22,1-18), disposto a sacrificare il figlio perché sapeva che Dio glielo avrebbe dato risorto; l’uscita dall’Egitto nella libertà (cf. Ez 12,37-42); la profezia della resurrezione dai morti (cf. Ez 37,1-14). Tutto nella storia dei padri aveva un télos, aveva un senso che si è compiuto nella resurrezione di Gesù, l’uomo, l’Adamo mortale ma fatto Figlio di Dio, risuscitato dal Dio vivente e vero per sempre, risuscitato come primo di tutti noi, suoi fratelli, che risorgeremo dietro a lui (cf. Col 1,18).
E il vangelo, che quest’anno abbiamo ascoltato nella versione di Luca, ci ha narrato come nella storia questo evento della resurrezione è stato vissuto da uomini e donne, discepoli di Gesù diventati testimoni, e con una testimonianza che li rendeva pronti a tutti, anche alla morte, pur di poter affermare che quel Gesù che avevano seguito, Messia e profeta, era risorto ed era il Signore dei vivi e dei morti. Abbiamo ascoltato il racconto. La sera del sabato, vigilia di Pasqua, fine del secondo giorno, quando Gesù è deposto dalla croce e viene posto in una tomba, scavata nella roccia, adiacente al luogo del supplizio, Luca annota: «Le donne che erano venute con lui dalla Galilea a Gerusalemme, seguirono quel corpo morto avvolto in un lenzuolo e videro come era stato deposto nel sepolcro. Poi tornarono alla loro abitazione per preparare aromi e unguenti, e osservarono il riposo del sabato, come prevedeva la Legge» (cf. Lc 23,55-56).
Ma ecco, passato il sabato, nel primo giorno della settimana, di buon mattino, le donne vanno al sepolcro con quegli aromi preparati per imbalsamare Gesù, per imbalsamare il cadavere di Gesù. Quelle donne sono mosse dall’affetto, dal legame con Gesù. Hanno seguito per anni quell’uomo che avevano ritenuto rabbi e profeta, e ora che il loro rabbi e profeta è morto esse pensano di avere a che fare con un corpo morto, con un cadavere. Ma queste donne trovano il sepolcro vuoto ed entrate non trovano il corpo del Signore Gesù. Eppure avevano visto deporre quel corpo nella tomba, avevano osservato come era stato deposto: ma ora il cadavere non c’è più, è assente dalla tomba.
A questo punto Luca ci narra una storia che è delle donne, una storia che è di Pietro, una storia che è dei discepoli, una storia che è anche la nostra: una storia di profonda incredulità. Questa è la verità che Luca ha il coraggio di dirci. Quelle donne sono innanzitutto delle donne incredule, non hanno creduto, non hanno conosciuto davvero il Signore. Ed ecco che sono – dice il verbo greco – m in una situazione di aporia, che è molto di più della perplessità. Sono davanti a un fatto che per loro non ha senso, e da questo non senso si lasciano interrogare. Mentre sono in questa situazione chiusa, perché non vedono più il corpo del Signore Gesù, mentre alzano lo sguardo da terra, da dove Gesù era deposto, vedono due uomini, come i discepoli sull’alta montagna avevano visto apparire due uomini quando Gesù fu trasfigurato (cf. Lc 9,30-31). Due uomini come vedranno anche tutti gli apostoli quando Gesù si separerà da loro benedicendoli e sarà portato verso il cielo (cf. At 1,10-11). Questa precisazione è propria di Luca: due uomini, due uomini che si fanno didascali, interpreti di quella mancanza del corpo morto di Gesù.
Essi pongono una domanda, che è un chiaro rimprovero alle donne: «Perché cercate tra i morti il Vivente?» Al tempo di Gesù sappiamo che c’era un detto nell’ambiente giudaico: «Non si cercano i vivi tra i morti e non si cercano i morti tra i vivi». Dunque vi è un rimprovero da parte di questi uomini alle donne discepole. Porre infatti la domanda: «Perché cercare tra i morti il Vivente?», significa chiedere alle donne: «Perché siete venute qui? Solo per l’affetto che avevate, solo per il legame affettivo e psicologico che avete vissuto? Questo non è sufficiente per conoscere il Signore. Nei tre anni che siete state dietro a Gesù avete ascoltato ciò che lui ha detto? Com’è possibile che non riusciate a ricordarvi delle parole che lui ha detto e ripetuto mentre era con voi?». Gesù aveva parlato più volte della necessità della sua passione, morte e resurrezione: questa era stata addirittura la sua istruzione martellante durante la salita a Gerusalemme (cf. Lc 9,22.33-45; 18,31-34). Ma le donne non ricordano. E i due uomini, gli interpreti – che sono poi, lo sappiamo, la Legge e i Profeti, Mosè ed Elia, l’Antico Testamento – dicono alle donne: «Ricordatevi, ricordatevi!». Chiedono alle donne il risveglio della memoria. Che cosa hanno fatto delle parole di Gesù? Perché quelle parole sembrano non aver lasciato traccia?
In questo modo i due uomini finiscono per rivelare non solo la situazione di Gesù, ma anche per dare un nome, un attributo a Gesù: «Perché voi cercate tra i morti il Vivente (tòn zônta)?» Questo avrebbero dovuto capire le donne: Gesù è il Vivente, il Vivente! E qui inizia un lento e faticoso cammino verso la fede. Con difficoltà, e noi non sappiamo quanto è durato questo processo, le donne si ricordano delle parole di Gesù e vanno dagli Undici, la comunità di Gesù ricompattata ma senza il traditore che ne è escluso per sempre, vanno ad annunciare loro la resurrezione. Luca dice che queste donne erano molte, anche se ricorda solo il nome di alcune di loro; di più, egli ha anche il coraggio di dirci che agli orecchi degli Undici quelle parole risultarono vaneggiamenti, sciocchezze, e per questo non credettero. Ecco la situazione della comunità del Signore, nel giorno di Pasqua. Ci sono due gruppi: le donne diventate, pur a fatica, credenti, e gli Undici ancora increduli.
Tuttavia Pietro vuole verificare, si separa dal gruppo che non credeva e va al sepolcro. Anzi, Luca dice che Pietro in quell’alba fa una corsa – come scriverà anche il quarto vangelo (cf. Gv 20,3) – e constata che il corpo morto di Gesù non è più là. Pietro resta nello stupore, nella meraviglia, ma non giunge a credere. L’itinerario di Pietro non è diverso da quello delle donne e non è diverso da quello dell’insieme degli Undici: c’è una grande fatica da fare per credere alla resurrezione. E anche per Pietro occorrerà la rivelazione, occorrerà che il Signore con una sua iniziativa alzi il velo, e proprio a lui Gesù stesso si mostrerà personalmente quale Vivente. Il Credo della chiesa primitiva lo dirà: «Gesù risorto è apparso innanzitutto a Simone, a Pietro». E anche in Luca, quando i discepoli di Emmaus saranno giunti alla fede e torneranno dagli altri Undici a Gerusalemme, sentiranno ormai il grido della comunità: «Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone!» (Lc 24,34).
Sì, c’è una grande fatica da fare per credere alla resurrezione: per i discepoli, per le discepole, per Pietro e anche per noi. Luca con questo racconto non vuole convincerci della resurrezione di Gesù, vuole soltanto indicarci una strada per credere. Qual è questo cammino che egli traccia? Ci dice che occorre avere il coraggio di cercare, di andare, di essere smossi, di vincere l’inerzia e l’ignavia, di andare e di correre come hanno fatto le donne in quell’alba, o come ha fatto Pietro. Ma tutto questo non basta, non basta neanche il legame di amore con Gesù. Occorre leggere le Scritture, occorre lasciare che i due uomini didascali e interpreti, Mosè ed Elia, ci rivelino il grande mistero, e quindi occorre davvero che le Scritture siano ascoltate, lette, ricordate, ripensate (cf. Lc 24,25-27.44-46). E occorre soprattutto arrivare a leggere la passione e morte di Gesù come un cammino che Gesù ha subìto perché gli uomini sono ingiusti, e dunque non attendersi dopo la morte in croce una rivincita, una smentita della morte e della passione. Questo non è cristiano: la resurrezione non è né la smentita né la vendetta, ma è sempre nella stessa logica di amore vissuto e contraddetto, un amore che, come la luce, non può essere sopraffatto.
Noi siamo tutti increduli, come le donne, come i discepoli, come Pietro. Confessiamolo: a volte non riusciamo a credere alla resurrezione, alla vittoria dell’amore sulla morte, non riusciamo soprattutto credere all’amore più forte della morte. La vita che noi viviamo contraddice in mille modi questa speranza; e il mondo e la società così come sono, non ci danno motivi di speranza. Neanche la comunità, neanche la chiesa sono capaci di sostenerci in questa fatica a credere. Ma a noi, a ciascuno di noi è fatto un invito: non basta il sepolcro vuoto, non bastano assolutamente i nostri sentimenti, occorre credere all’amore, o almeno in un suo tentativo; occorre almeno fare della speranza, come dice la Lettera agli Ebrei, un appiglio, un’ancora alla quale stringerci (cf. Eb 6,18). Eppure l’essere qui ancora e il vivere come abbiamo vissuto queste ore, questi giorni, può essere solo dovuto al fatto che il Risorto ci attira a sé, che il Risorto innalzato attira tutti noi a sé. In questo sentirci attirati non sentiamoci molto lontani dai nostri fratelli non cristiani e increduli; ma anzi, chiediamo al Signore che, come attira noi e attirando noi, attiri anche loro.
ENZO BIANCHI, priore di Bose