Témoignage et martyre dans la Bible
1. Testimonianza e martirio nell’Antico Testamento
a) Martirio e profezia
Secondo la tradizione giudaica, confluita per es. nel testo apocrifo Vite dei profeti – composto all’epoca della fine del secondo tempio ma trasmesso dai cristiani –, la sorte dei profeti autentici è quella di essere perseguitati. In particolare, il martirio e la morte violenta sono il sigillo per eccellenza della missione profetica, il culmine della testimonianza resa a Dio di fronte all’idolatria dominante e alla disobbedienza degli uomini alla sua volontà. È con questa consapevolezza che, nella liturgia espiatrice celebrata al ritorno dall’esilio, i leviti confessano che «[i nostri padri] si sono ribellati contro di te, o Dio, si sono gettati la Torah dietro le spalle, hanno ucciso i tuoi profeti che li ammonivano per farli tornare a te e ti hanno insultato gravemente» (Ne 9,26). Gesù stesso si porrà nelle parole e nei fatti in questo solco; e Stefano nel lungo discorso che precede la sua lapidazione chiede ai suoi aguzzini: «Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato?» (At 7,52).
Questa lunga storia si apre con Mosè, «servo del Signore» (Dt 34,5) duramente contestato e messo alla prova in vari modi dai figli di Israele durante il cammino nel deserto (cf. Es 17,1-7, ecc.). In una tradizione ripresa da Osea vi sono due versetti che, pur essendo di interpretazione molto incerta, sembrano testimoniare le sofferenze fino al sangue inflitte al grande profeta. Ve ne fornisco una traduzione letterale:
Per mezzo di un profeta il Signore fece uscire Israele dall’Egitto e per mezzo di un profeta lo custodì. Ma [Efraim] lo provocò fino all’amarezza: perciò il suo sangue ricadrà su di lui e il suo obbrobrio gli renderà il suo Signore (Os 12,14-15).
Ma il martirio dei profeti è attestato con certezza già da Elia, a metà del ix secolo a.C. Mentre fugge dalla persecuzione della regina Gezabele verso la montagna di Dio, l’Oreb-Sinai, al Signore che gli chiede: «Che fai qui, Elia?», egli risponde: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio dell’universo, poiché i figli di Israele hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita» (1Re 19,9-10.13-14). La «colpa» dei profeti è quella di opporsi al potere idolatrico, fonte di oppressione economica e sociale per i poveri: è attraverso la loro difesa della giustizia che essi testimoniano la sovranità assoluta di JHWH e confessano la loro fede in lui fino al dono della vita.
Si potrebbero citare altri esempi di profeti perseguitati fino al martirio, tra cui spiccano quello di Uria (cf. Ger 26,20-23) e quello di Zaccaria, ricordato anche da Gesù (cf. 2Cr 24,17-22; Mt 23,35; Lc 11,51). Ma io vorrei soffermarmi solo sul caso paradigmatico di Geremia, vissuto a cavallo tra il vii e il vi secolo a.C. Tutto il suo ministero profetico può essere letto come un’ininterrotta passione, che nasce dal contrasto tra il suo annunciare la parola di Dio – la quale «è per lui causa di vergogna e di scherno tutto il giorno» (cf. Ger 20,8) – e il suo essere perseguitato dalle autorità religiose legittime (cf. Ger 18,18), al punto che egli si sente «come un agnello mansueto condotto al macello» (Ger 11,18). Il sacerdote Pascur lo fa fustigare e mettere in prigione (cf. Ger 20,2) e, in seguito alla sua profezia sul tempio, Geremia viene arrestato e riceve una sentenza di morte, sventata all’ultimo momento (cf. Ger 26).
Come già aveva fatto Zaccaria in punto di morte (cf. 2Cr 24,22), anche Geremia chiede a Dio di vendicarlo (cf. Ger 15,15). Dio però non interviene contro i suoi nemici, lascia che il profeta scenda allo she’ol della disperazione, lo mette a confronto con i falsi profeti senza che appaia con chiarezza l’autenticità della sua testimonianza: Geremia vedrà bruciare il rotolo su cui sono scritte le sue parole (cf. Ger 36,l-26), finirà in una cisterna fangosa rischiando la morte (cf. Ger 38,1-12) e sarà trascinato in Egitto, solidale col peccato del suo popolo (cf. Ger 43,1-7). Nei momenti tragici dell’esistenza di quest’uomo, Dio sembra abbandonarlo e rifiutargli la sua testimonianza; eppure Geremia dà sempre la sua testimonianza a Dio, gli rimane fedele fino alla morte fuori della terra santa. Una morte che, secondo la rilettura della tradizione giudaica, è un vero e proprio martirio: «Geremia morì a Tafni, in Egitto, lapidato dal popolo» (Vite dei profeti 2).
b) Il Servo del Signore
All’interno del nostro itinerario un posto particolare spetta alla misteriosa figura dell’‘eved Adonaj, il Servo del Signore descritto dal Deutero-Isaia a metà del vi secolo a.C., nei cosiddetti quattro «Canti del Servo» (cf. Is 42,1-9; 49,1-7; 50,4-11; 52,13-53,12). Si tratta di testi estremamente ricchi e complessi, che hanno ricevuto lungo i secoli numerose interpretazioni. Tra di esse si segnalano quella messianica individuale, già presente nel giudaismo e poi attestata con continuità dalla tradizione cristiana, e quella collettiva che vede nel Servo il popolo di Israele, inteso come personalità corporativa (cf. Is 49,3).
In quest’ultima ottica, all’interno di una sorta di processo istruito davanti ai gojim, il popolo esiliato e osteggiato è reso testimone dal Signore stesso. Per tre volte l’oracolo del Signore risuona con forza: «Voi siete i miei testimoni!» (‘edaj [mártyres secondo i lxx]: Is 43,10.12; 44,8). La testimonianza essenziale resa da Israele a Dio è quella della perseveranza pur in una situazione di estrema sofferenza. Nella sua apparente passività il popolo resta «il servo che Dio si è scelto» (cf. Is 43,10) e, in tal modo, fornisce una testimonianza pubblica attraverso la sua fede che resta salda anche in mezzo alle persecuzioni.
Ma i canti del Servo descrivono anche un profeta individuale. Ripieno dello Spirito di Dio, egli è investito della missione di «manifestare alle genti il mishpat» (Is 42,1), «giudizio radicale in nome dell’unico amore di Dio, e perciò giudizio di salvezza per tutti gli uomini» (Alberto Mello). La sua missione sembra però segnata soltanto dall’insuccesso: profeta respinto a causa della testimonianza resa alla parola di Dio, egli subisce ingiurie e persecuzioni; tuttavia continua a confidare in Dio e si dichiara disposto a testimoniare in tribunale davanti ai nemici (cf. Is 50,4-9). Nel quarto canto l’oltraggio riservato al Servo giunge al culmine, facendone «l’uomo dei dolori, familiare col patire» (Is 53,3), condannato a subire un’ingiusta morte violenta e una sepoltura tra gli empi (cf. Is 53,8-9). Come agnello afono l’‘eved Adonaj è condotto al macello (cf. Is 53,7), eppure la sua morte appare come un vero sacrificio di espiazione che permette la realizzazione del disegno di Dio. Proprio a causa della sua fine ignominiosa, infatti, egli vedrà la luce, sarà un segno per le moltitudini (rabbim), sarà fonte di giustificazione grazie alla sua intercessione per i peccatori (cf. Is 53,11-12).
Nella vicenda di questo martire anonimo c’è la testimonianza pubblica di fronte ai poteri mondani, la morte volontariamente accettata, il valore espiatorio del sacrificio e la conseguente benedizione che ricade su tutti gli uomini, tra cui vanno annoverati i suoi carnefici. Essi alla sua vista non possono non riconoscere: «Era trafitto dai nostri peccati, spezzato per le nostre iniquità … Per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53,5). Ecco l’assoluta unicità del Servo: egli, non imputando il peccato alle moltitudini ma prendendo su di sé la loro violenza, pone fine alla violenza; la colpa dei carnefici ricade sul Servo, il quale assume l’ingiustizia di cui è stato vittima e si interpone quale arbitro tra Dio e i peccatori, per chiedere a Dio misericordia e trasmettere il perdono alle moltitudini.
Come emerge da molti passi dei vangeli, Gesù deve aver pensato la propria vocazione più profonda alla luce di questa figura del Servo, assumendola come forma della propria vita, fino a interpretare attraverso di essa la propria fine. Non ha forse detto ai suoi discepoli poco prima di essere arrestato: «Deve compiersi in me questa parola della Scrittura: “E fu annoverato tra i malfattori” (Is 53,12)» (Lc 22,37)? Di conseguenza, la figura del Servo diventerà un riferimento imprescindibile in ogni riflessione cristiana sul martirio.
c) Il martirio dei Maccabei
Se facciamo un salto cronologico agli inizi del ii secolo a.C., l’epoca della persecuzione ellenistica, incontriamo il martirio affrontato per amore di Dio e della sua Legge da parte di alcuni fedeli (chassidim) e di alcuni sapienti (maskilim). La loro testimonianza, narrata dai libri di Maccabei e riletta teologicamente da Daniele, assumerà un valore esemplare per i cristiani oppressi dall’impero romano: non a caso i martiri Maccabei furono ben presto inseriti nei martirologi cristiani e la loro tomba ad Antiochia fu occupata dai cristiani che volevano onorarne la memoria.
Antioco iv Epifane (175-164 a.C.), re della dinastia dei Seleucidi, scatenò un’aspra persecuzione contro i fedeli alla Torah che si opponevano all’introduzione dei costumi pagani e dell’idolatria in Israele. L’abolizione della Torah, la sostituzione della festa delle Capanne con i Baccanali e infine l’introduzione del culto di Zeus nel tempio – evento definito «abominio della desolazione» (Dn 9,27; cf. 1Mac 1,54) – trovarono una fiera opposizione guidata dalla famiglia di stirpe sacerdotale dei Maccabei. Deprivata dei suoi elementi nazionalistici e dei suoi tratti di «guerra santa», visibili soprattutto nella figura di Giuda Maccabeo, questa opposizione rivela caratteristiche paradigmatiche per la prassi del martirio, come si evince da alcuni passi dei libri di Maccabei. Ai nemici che li attaccano in giorno di sabato
essi non risposero, né lanciarono pietra, né ostruirono i nascondigli, dichiarando: «Moriamo tutti nella nostra innocenza. Ci sono testimoni il cielo e la terra che ci fate morire ingiustamente». Così quelli si lanciarono contro di loro in battaglia ed essi morirono con le mogli, i figli e il bestiame, in numero di circa mille persone (1Mac 2,36-38).
Anche lo scriba Eleazaro si avvia prontamente al supplizio, dicendo sotto i colpi: «Il Signore sa bene che, potendo sfuggire alla morte, soffro nel corpo atroci dolori sotto i flagelli, ma nell’anima sopporto volentieri tutto questo per il timore di lui» (2Mac 6,30-31). Ma la testimonianza più impressionante e destinata a godere di un’enorme fortuna è quella dei sette fratelli e della loro madre, pronti a morire piuttosto che rinnegare la Torah (cf. 2Mac 7). Mentre vengono torturati uno a uno, attestano alla presenza del re che Dio darà loro consolazione, risuscitandoli a vita nuova ed eterna; che è bello morire a causa degli uomini per attendere da Dio il compimento della speranza di essere da lui resuscitati. Essi sacrificano la propria vita con parrhesia e piena fede nel Dio unico, che confessano come loro vendicatore.
Il senso della testimonianza di questi credenti è ben compreso da Daniele il quale, retroproiettando all’epoca del regno babilonese i fatti storici del suo tempo, assimila i martiri Maccabei ai tre giovani gettati nella fornace ardente da Nabucodonosor (cf. Dn 3,8-97); al contrario, giudica la rivolta armata come un tentativo fatto da mani d’uomo, «un piccolo aiuto» (Dn 11,34), incapace di fermare la persecuzione perché poco fiducioso nel vero aiuto, quello di Dio (cf. Dan 2,34; 8,25). Egli riconosce come testimoni di Dio «quei sapienti (maskilim) che ammaestreranno le moltitudini, ma cadranno di spada, saranno dati alle fiamme, condotti in schiavitù e oppressi per molti giorni … Alcuni di essi cadranno perché tra di loro ve ne siano di quelli purificati, lavati, resi candidi fino al tempo della fine» (Dan 11,33.35). La loro speranza indefettibile è quella della resurrezione: per questo Daniele può affermare che «risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come stelle per sempre» (Dan 12,3).
Questi ultimi elementi sono ormai molto prossimi alla concezione cristiana del martirio. Potremmo dire che manca una sola cosa, quella essenziale: l’evento e la persona di Gesù Cristo, causa di vita e di morte per i suoi discepoli. Ma prima di passare alla seconda parte della mia riflessione vorrei leggere un ultimo brano, tratto dal libro della Sapienza, composto alle soglie dell’era cristiana. L’autore, paragonando la sorte dei giusti e quella degli empi, scrive parole che costituiscono un trait d’union ideale con quanto seguirà:
I giusti che muoiono sono nella mano di Dio, nessun tormento può colpirli: agli occhi degli stolti sono ritenuti dei morti, la loro scomparsa giudicata una disgrazia, ma essi sono nella pace per sempre. Se agli uomini sono sembrati tribolati, essi hanno sperato in una vita senza fine: dopo una breve sofferenza ricevono una grande ricompensa … Nel giorno della visita del Signore risplenderanno, brilleranno come scintille di fuoco, giudicheranno le genti, avranno potere sui popoli e il Signore regnerà per sempre su di loro (Sap 3,1-5.7-8).